Sala 6
L’artista Anton Raphael Mengs (1728-1779) in questo dipinto datato 1779 – quindi una delle sue ultimissime opere – rappresenta il granduca di Toscana Pietro Leopoldo di Lorena (1747-1792) all’età di trentadue anni. Figlio di Francesco I e di Maria Teresa, Leopoldo di Lorena nel 1790 diventerà imperatore d’Austria. Il ritratto è privo di qualsiasi apparato fastoso, il fondo è scuro e la figura si staglia su di esso a mezzo busto, di tre quarti, conferendo così profondità al dipinto. I valori cromatici, in un accordo perfetto di bianchi, grigi e verdi, testimoniano l’alto magistero pittorico del maestro boemo.
Il dipinto è uno dei quadri più importanti della raccolta, opera del parmigiano Michele Rocca (1670 c.-m. dopo il 1751), che a Roma, sua città d’adozione, raccolse intorno a sé un pubblico colto e raffinato. I suoi quadretti da salotto interpretano con spirito paganeggiante tematiche religiose che si traducono in composizioni eleganti e artificiose. Grande importanza viene data alla luce morbida e diffusa che avvolge le figure conferendo loro un senso di eterea indefinitezza. San Sebastiano, bellissimo ed elegante nell’atteggiamento come fosse un Adone, il colore della pelle quasi marmoreo assimilabile a quello di una scultura greca, viene soccorso dalle pie donne, le cui vesti e pettinature raffinate le rendono simili a tre ninfe della mitologia classica. La freccia, simbolo del martirio del Santo, è solo accennata. Tre amorini assistono alla scena da una nuvola la cui materia è intrisa di luce.
Copia ottocentesca eseguita da Antonio Tommasi, pittore fiorentino amico del Rambaldi, dalla Vergine del Sassoferrato (1605-1685) conservata alla Galleria degli Uffizi. Del Sassoferrato rimangono lo stile classicheggiante e il senso pietistico che pervade l’intera composizione. La Vergine viene raffigurata in preghiera, con le mani giunte portate al petto e un ampio manto blu che le copre il capo. L’espressione del viso è serena ed assorta al contempo, l’incarnato è chiaro e luminoso.
Imitazione di uno dei numerosi esemplari sul tema eseguiti dal Sassoferrato (1605-1685), tra i quali la Madonna di Galleria Colonna a Roma. La Vergine, con un lungo velo bianco e le mani incrociate portate al petto in segno di devozione, emerge da un fondo scuro che ne evidenzia la figura. L’incertezza nell’esecuzione delle mani e la stesura piatta del colore fanno pensare ad una copia eseguita da mano ancora inesperta.
Replica, in formato ridotto ma autografa, del dipinto firmato da Agostino Masucci (1691-1748) conservato al Museo Catredalicio di Artoya (Leon).Tinte chiare, dai contrasti attenuati, una pennellata leggera e quasi trasparente, delineano la figura della Madonna, concentrata nella lettura di un libro che regge con molta grazia nella mano destra. La Vergine tiene sul suo grembo il Bambino, avvolto in un bianco e morbido drappeggio. Il Bambino in un gesto di grande amore e intimità poggia il suo capo sulla spalla sinistra della madre.
Presso la Pinacoteca Rambaldi sono conservati quattro paesaggi di Antonio Morghen (1788-1853) , figlio del celebre incisore Raffaele Morghen. Le sue opere mostrano un gusto decisamente romantico nella mutevolezza dei valori cromatici e della luce a seconda delle diverse stagioni ed ore del giorno. L’artista cura attentamente la cadenza della luce su ogni singolo elemento della natura, conferendo al dipinto una grande ricchezza cromatica. La vegetazione è ispida e selvaggia. Le presenze umane, piccole e rare, sono solo secondarie rispetto alla grandiosità del paesaggio. Grazie ad un uso apparentemente spontaneo del colore e a pennellate rapide il pittore riesce a catturare un attimo fugace, dietro il quale vi è in realtà un attento studio compositivo.
Presso la Pinacoteca Rambaldi sono conservati quattro paesaggi di Antonio Morghen (1788-1853) , figlio del celebre incisore Raffaele Morghen. Le sue opere mostrano un gusto decisamente romantico nella mutevolezza dei valori cromatici e della luce a seconda delle diverse stagioni ed ore del giorno. L’artista cura attentamente la cadenza della luce su ogni singolo elemento della natura, conferendo al dipinto una grande ricchezza cromatica. La vegetazione è ispida e selvaggia. Le presenze umane, piccole e rare, sono solo secondarie rispetto alla grandiosità del paesaggio. Grazie ad un uso apparentemente spontaneo del colore e a pennellate rapide il pittore riesce a catturare un attimo fugace, dietro il quale vi è in realtà un attento studio compositivo.
Presso la Pinacoteca Rambaldi sono conservati quattro paesaggi di Antonio Morghen (1788-1853) , figlio del celebre incisore Raffaele Morghen. Le sue opere mostrano un gusto decisamente romantico nella mutevolezza dei valori cromatici e della luce a seconda delle diverse stagioni ed ore del giorno. L’artista cura attentamente la cadenza della luce su ogni singolo elemento della natura, conferendo al dipinto una grande ricchezza cromatica. La vegetazione è ispida e selvaggia. Le presenze umane, piccole e rare, sono solo secondarie rispetto alla grandiosità del paesaggio. Grazie ad un uso apparentemente spontaneo del colore e a pennellate rapide il pittore riesce a catturare un attimo fugace, dietro il quale vi è in realtà un attento studio compositivo.
Presso la Pinacoteca Rambaldi sono conservati quattro paesaggi di Antonio Morghen (1788-1853) , figlio del celebre incisore Raffaele Morghen. Le sue opere mostrano un gusto decisamente romantico nella mutevolezza dei valori cromatici e della luce a seconda delle diverse stagioni ed ore del giorno. L’artista cura attentamente la cadenza della luce su ogni singolo elemento della natura, conferendo al dipinto una grande ricchezza cromatica. La vegetazione è ispida e selvaggia. Le presenze umane, piccole e rare, sono solo secondarie rispetto alla grandiosità del paesaggio. Grazie ad un uso apparentemente spontaneo del colore e a pennellate rapide il pittore riesce a catturare un attimo fugace, dietro il quale vi è in realtà un attento studio compositivo.
Il dipinto si inserisce appieno nell’ambiente “internazionale” romano settecentesco, in cui generi cosiddetti minori, quali il paesaggio, la veduta o la scena di genere, acquisiscono una dignità propria e diventano oggetto di richiesta da parte di una committenza internazionale. In un paesaggio arcadico un pastore indica ad una donna con due bambini, di cui uno in braccia, qualcosa di indefinito nel cielo. Intorno a loro pascolano, vicino ad un corso d’acqua, un bovino, alcune pecore ed una capra.
Il dipinto è attribuito ad un pittore del XVIII secolo. In un paesaggio campestre si vedono in primo piano le figure di uno zampognaro e di un bambino che accompagna il suono della zampogna con il suo canto. Nell’angolo destro in primo piano si vede un cagnolino bianco. Sullo sfondo si nota una capanna verso la quale si incammina un pastore. In lontananza, sulla sinistra, si scorge un piccolo agglomerato di case.
L’opera è una prova giovanile di Francesco Gandolfi (1824-1873), allora poco più che ventenne, il quale godette di un’ottima fama soprattutto in Liguria, sua terra d’origine. La superficie del dipinto è quasi interamente occupata dal busto di un vecchio monaco, la cui età viene rivelata dal volto rugoso. Il capo è chino e la mano destra impugna un bastone, richiamo di un lungo cammino. Fanno da sfondo il cielo azzurro e i monti in lontananza.
Il dipinto è firmato e datato “F. Bensa 1849”. Francesco Bensa (1830 c.-noto sino al 1880), di origine nizzarda ma attivo specialmente a Firenze, mostra nei suoi paesaggi una particolare attenzione nei confronti dei diversi fenomeni della natura. L’acquerello raffigura un fiume ghiacciato sovrastato in lontananza da un ponte. Alcune figure sembrano passeggiare o pattinare sulla superficie. Al di là del ponte si scorgono sui due lati gruppi di case. Il cielo è terso. La carta acquerellata purtroppo si è ingiallita, alterando i colori del dipinto.
L’acquerello, opera di un pittore ottocentesco, rappresenta un castello dalla struttura architettonica ben definita immerso in un paesaggio di montagna. In primo piano si vede un muretto in pietra. Nel cortile dell’edificio sono abbozzate due figure umane. A sinistra, sulla sommità della montagna, si scorgono alcune case lontane.
Il dipinto riporta sul retro la seguente iscrizione “D. Castellini / fece 1850 / Ritratto del Sacerd.e Stef. Paolo Rambaldi / N. Rettore del Seminario Arcivesc.le di Firenze nell’anno XLI dell’età sua”. Dario Castellini (not. 1850-1880), originario di Carpi, lavorò come ritrattista specialmente a Firenze, dove entrò a far parte del vivace entourage artistico con il quale venne in contatto il Rambaldi nella prima metà dell’Ottocento. Il ritratto è piuttosto convenzionale: il sacerdote, con indosso l’abito talare, viene raffigurato a mezzo busto, di tre quarti, seduto su una poltrona di velluto rosso. Dal fondo bruno si dipana un fascio di luce volto ad illuminare il viso dal bianco incarnato. Nella mano sinistra Rambaldi tiene un libro di colore verde che rimanda alla sua vita di studi.
Il dipinto è siglato e datato “A. C./F. 1860”. Antonio Ciseri (1821-1891), ticinese d’origine, ma fiorentino d’adozione, si fece conoscere soprattutto per le grandi composizioni di argomento storico e religioso. Eppure gli esiti migliori della sua pittura li ritroviamo nel campo del ritratto, in cui l’artista riesce a mettere a nudo i tratti più intimi della personalità del soggetto raffigurato. Padre Stefano Rambaldi è ritratto all’età di cinquantasette anni, poco tempo prima di morire. Il viso segnato dalle rughe e il bastone che impugna nella mano sinistra raccontano di quei lunghi anni di vita trascorsa. Lo sguardo è serioso, illuminato da una luce calda diffusa. Dal fondo bruno, che sottolinea il carattere austero ed esemplare del sacerdote, emergono le sagome di tre libri che riconducono alla sua profonda passione per lo studio.
Copia parziale dell’autoritratto degli Uffizi dipinto da Rembrandt Harmensz van Rijn (1606-1669) in età giovanile, intorno al 1634. L’autoritratto è a mezzo busto, coi folti capelli ricci che incorniciano il volto e un baschetto scuro sul capo. La veste, resa con estrema cura e attenzione al dettaglio, termina con una goletta d’acciaio e un colletto bianco in pizzo. Grande è l’introspezione psicologica dell’artista, che cerca di cogliere, attraverso l’espressione del volto, la complessità della propria psiche.
Copia settecentesca da un originale non identificato, fine nella resa cromatica ma privo di vivacità nell’esecuzione. Il personaggio ritratto di tre quarti, con lo sguardo fiero, la lunga parrucca che gli accarezza il volto e l’abito sontuoso, sarebbe da identificarsi con il figlio del Re Sole, detto “Le Grand Dauphin” (1661-1711).
La tavola in rame, opera del pittore bolognese Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), raffigura una giovane suonatrice di mandola, con i capelli avvolti in un bianco turbante, un abito semplice che rimanda ad una fanciulla del popolo ed un paesaggio non ben definito alle sue spalle. Purtroppo il soggetto risulta quasi illeggibile a causa dello sgretolamento del colore e del conseguente deperimento dell’opera stessa.
Schede tecniche a cura della Dott.ssa Chiara Tonet
Bibliografia: G.V. Castelnovi, La Raccolta Rambaldi di Coldirodi, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri, 1988; L. Magnani, Schede Ministeriali OA della Pinacoteca Rambaldi di Coldirodi, 1982.