Sala 4
L’impronta realistica e la scelta del soggetto rimandano alla pittura del grande artista spagnolo Jusepe de Ribera, detto Lo Spagnoletto (1591-1652). Su un fondo bruno si staglia la figura del Santo, sorpreso dal pensiero del giudizio finale, cui allude la tromba. Il corpo di San Gerolamo è flaccido, rugoso, ormai consunto dal tempo, come il vecchio e rovinato libro che tiene tra le mani. Su un ripiano davanti a sé poggiano una penna e un calamaio, probabile riferimento alla Vulgata, la traduzione della Bibbia dal greco al latino ad opera del Santo.
I tre vecchi inventari riferiscono la tavola l’uno a Sebastiano del Piombo, l’altro al Sodoma, l’ultimo al Bronzino. Più realisticamente il Castelnovi indica il nome di Jacopino del Conte (1515-1598): l’autore del dipinto va infatti ricercato in quella pittura manieristica di carattere sacro che punta ad un effetto pietistico. Il Cristo, con un ampio mantello rosso annodato sul petto e la muscolatura ben definita, viene rappresentato come una figura eroica. L’evidenza plastica, ottenuta attraverso il netto chiaroscuro e il disegno marcato, avvicina l’autore dell’opera allo stile michelangiolesco.
Il carattere pietistico dell’opera deriva dai dipinti di Guido Reni (1575-1642) di analogo soggetto. Cristo è raffigurato con la corona di spine e lo sguardo di chi soffre rivolto al cielo. L’incarnato è verdastro, steso a grandi pennellate di colore che si incrociano sul petto. Il marcato gioco di luci e di ombre non fa che accentuare il pathos derivante dalla sofferenza umana del Cristo.
In due vecchi inventari la tela era attribuita al pittore fiammingo Gherardo delle Notti (1590-1656), ma l’ipotesi sarebbe da scartare dal momento in cui la corrispondenza stilistica è alquanto vaga. Il dipinto potrebbe essere in realtà opera di un artista toscano seicentesco e sarebbe quindi riferibile all’Honthorst solo nella scelta del soggetto e nella resa attenta degli effetti chiaroscurali. Sul fondo scuro si staglia la figura di un bambino il cui volto, dai lineamenti estremamente delicati, viene illuminato dalla luce che si propaga dalla fiamma di una candela.
La Vergine, con il capo coperto da un lungo velo che cade sul suo petto e gli occhi rivolti al cielo in atto di preghiera, sembra essere uno studio settecentesco della pala dell’Immacolata Concezione dipinta da Guido Reni (1575-1642) per la Chiesa di San Biagio a Forlì. La luce diffusa ed i colori ambrati che pervadono la tela la inseriscono appieno nello stile Rococò settecentesco.
Il piccolo dipinto in rame è da attribuire al fiorentino Carlo Dolci (1616-1685), in modo particolare per quanto concerne la scelta del soggetto e per la sua interpretazione in chiave pietistica. Gesù Bambino è seduto su una gradinata al centro della composizione. Indossa un abito rosso e tiene nella mano sinistra una corona di fiori. Alla sua destra si intravede parte di un paramento a conci. Sul retro della tavoletta un’iscrizione riporta la data in cui Stefano Rambaldi acquistò il dipinto (20 ottobre 1844) con la relativa provenienza.
Il dipinto è da attribuire alla produzione pietistica della bottega di Carlo Dolci (1616-1685). Il viso di Santa Rosa, dall’incarnato morbido e delicato, si volge al cielo in atto di preghiera. Un velo bianco, coperto da un manto nero, incornicia il volto della donna. Sulla sommità del capo è posta una corona di fiori bianchi e rosa. Il carattere devozionale dell’opera si inserisce pienamente nello spirito della Controriforma.
Il dipinto si inserisce nell’ambito di quella pittura devozionale seicentesca tanto apprezzata da Carlo Dolci (1616-1685) e dalla sua bottega. Nonostante si tratti di un’opera di buona fattura, manca l’accuratezza tecnica e stilistica del Dolci, il che fa pensare nuovamente ad un dipinto eseguito da un suo allievo o da un abile imitatore. Sant’Antonio, dall’aspetto singolarmente giovane, volge il suo sguardo al cielo in segno di contemplazione. Accanto a lui è posato un rametto di giglio, simbolo di purezza.
Copia in dimensioni ridotte della pala collocata sull’altare maggiore della Chiesa di San Lorenzo in Miranda a Roma, dipinta da Pietro da Cortona (1596-1669) a Firenze nel 1646. La fattura discreta fa pensare ad una copia di bottega. La scena si svolge all’interno di un alto porticato che si apre sul cielo azzurro. Al centro della composizione San Lorenzo viene afferrato da alcuni scherani che lo spingono sulla graticola, dove un uomo si appresta ad accendere il fuoco. Il Santo volge le braccia al cielo verso i due angeli che gli portano in dono la palma e la corona del martirio.
Derivazione indiretta dalla Vergine di Guido Reni (1575-1642) della Galleria Doria – Pamphilj a Roma, nota nel ‘700 grazie alle numerose copie di bottega e varianti sul tema. Il dipinto risulta alquanto interessante per lo sviluppo verticale della composizione e per l’aggiunta di due cherubini alle spalle della Vergine in preghiera.
Schede tecniche a cura della Dott.ssa Chiara Tonet
Bibliografia: G.V. Castelnovi, La Raccolta Rambaldi di Coldirodi, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri, 1988; L. Magnani, Schede Ministeriali OA della Pinacoteca Rambaldi di Coldirodi, 1982.