Sala 3
Nelle Tentazioni di Sant’Antonio il pittore napoletano Salvator Rosa (1615-1673) porta l’orrore del male ad un culmine mai raggiunto da nessun’altra opera su questo tema. In un luogo desertico e roccioso Sant’Antonio viene distolto dalla meditazione dalla comparsa improvvisa di iperbolici mostri e terrificanti figure demoniache. Si rotola a terra impugnando contro di essi la croce, il suo corpo si torce sopra la stuoia su cui stava pregando. In primo piano, seminascosti, si scorgono il Vangelo e il teschio, simbolo della meditazione del Santo sulla fugacità della vita umana e sul triste destino di morte che accomuna gli uomini. Tra le forze del male spicca per le sue dimensioni una creatura mostruosa, un essere ermafrodita che sembrerebbe essere uscito da un bestiario medievale. La sua natura si compone di elementi sovradimensionati di vari animali: la corporatura ricorda lo scheletro di un uccello in posizione eretta, la testa è quella di un cavallo con lunghe zanne di cinghiale, la coda serpeggiante richiama l’immagine di un ratto. La presenza del mostro suscita uno stato di inquietudine già solo per la sua grandezza fuori scala rispetto a Sant’Antonio. È il demonio, un incubo notturno ben lontano dalla creatura mistica o dalla donna dall’aspetto conturbante dell’iconografia religiosa tradizionale.
L’opera raffigura un evangelista che secondo gli antichi inventari sarebbe San Marco. Sicuramente è una rappresentazione di un santo alquanto inusuale: l’espressione pensosa di chi è totalmente assorto nella scrittura, i capelli lunghi e arruffati, la barba incolta farebbero più pensare a un filosofo, un poeta, un alchimista, o comunque a un uomo di studi. L’evangelista, raffigurato a mezzo busto con il capo poggiato sulla mano sinistra, sta scrivendo un cartiglio che riporta la seguente dedica: “Salva…/ Rosa / Per l’Ill. / Sig. Cav. / Fabbroni / questo qua / dro rappre / senta…san…”. Il Signor Cavalier Fabbroni sopra citato doveva essere quasi certamente il destinatario del dipinto.
Questo paesaggio di Salvator Rosa (1615-1673), artista napoletano poliedrico, pittore, musicista, attore di teatro, scrittore di satire, riflette il gusto dell’artista, sempre pronto a cogliere l’aspetto più misterioso e selvaggio del paesaggio naturale. Una rupe si staglia su un piccolo specchio d’acqua, intorno al quale alberi ricurvi nascosti nell’ombra sembrano cercar con i loro lunghi rami uno spiraglio ndi luce. Tre piccoli uomini si inseriscono nel paesaggio, come a voler sottolineare la forza e l’immensità della natura rispetto alla picciolezza dell’uomo. Salvator Rosa sembra qui anticipare quel concetto del “sublime” kantiano che tanto sarà amato dai pittori romantici dell’Ottocento.
L’ottima fattura del dipinto, “la stesura liscia dei colori” (Castenovi, p.70), l’esecuzione attenta del volto e in modo particolare della bocca fanno pensare che questo dipinto sia stato eseguito all’interno della bottega di Giusto Sustermans (1597-1681), a quel tempo pittore ufficiale della corte medicea. L’opera rimanda al dipinto di analogo soggetto realizzato dallo stesso Sustermans pochi anni dopo la nomina di Leopoldo a Cardinale (1667) e attualmente conservato presso la Pinacoteca di Lucca. Dal fondo scuro emerge la figura di Leopoldo de’ Medici, ritratto di tre quarti, a mezzo busto, con indosso la veste cardinalizia.
Il dipinto, in modo particolare nell’esecuzione del volto del bambino, farebbe pensare ad un pittore fiorentino vicino ai modi dello Sustermans (1597-1681), anche se non dotato dell’incisività del tratto pittorico e della forza espressiva del grande ritrattista fiammingo. Probabilmente il giovane, dai lunghi boccoli castani e vestito di un elegante abito rosso, apparteneva alla famiglia de’ Medici, come dimostrerebbero i lineamenti del volto di tipo asburgico.
Attribuito originariamente a Paris Bordone (1500-1571) per via di una scritta sul retro del telaio, in realtà il dipinto sembrerebbe essere una copia eseguita da un pittore seicentesco di scuola veneta o fiamminga. G.V. Castelnovi propende per l’ipotesi di una copia, dato che l’opera appare anonima sia dal punto di vista della tecnica che dello stile. Da un fondo verde scuro emerge la figura di un uomo dall’incarnato chiaro, con baffi biondi solo accennati e una veste nera dal colletto bianco.
L’inventario del 1873 steso da Padre Rambaldi attribuisce giustamente l’opera a Onorio Marinari (1627-1716), pittore fiorentino cugino e allievo di Carlo Dolci, dal quale l’artista eredita l’abilità tecnica del disegno e l’equilibrio della composizione. In un paesaggio di campagna, che per i sui colori accesi e gli sprazzi di luce crea un’atmosfera di mitico idillio, si riposa la Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto. La Vergine tiene sulle ginocchia il Bambino, mentre San Giuseppe gli porge piccole mele rosse. Sulla sinistra emerge dal fondo scuro il basamento di una colonna, mentre in primo piano un panno rosso ed un pezzo bianco di stoffa poggiano sulla pietra su cui siede la Vergine. Rapidi tocchi di luce illuminano il paese sullo sfondo.
Copia in formato ridotto (originale 335×540) della grande tela dipinta da Paolo Veronese (1528-1588) per la cappella maggiore della Chiesa di San Sebastiano a Venezia. Sullo sfondo di un’antica città, una grande folla si riunisce intorno alla figura di San Sebastiano, che incita al martirio i Santi Mauro e Marcellino, raffigurati in catene mentre scendono dalla scala di Palazzo Pretorio. Spiccano i toni brillanti, con una prevalenza del rosso e del rosa, che si contrappongono cromaticamente all’oscurità di un cielo cupo e nuvoloso.
L’opera è stata attribuita da G.V. Castelnovi a Giacinto Gimignani (1611-1681), pittore pistoiese attivo prevalentemente a Roma dove fu allievo di Pietro da Cortona. Secondo L. Magnani l’equilibrio compositivo e la definizione del disegno farebbero pensare, in realtà, all’ambito del Poussin (1594-1665). In un paesaggio autunnale dalle tinte scure cinque uomini dalla muscolatura ben definita si dirigono verso i due gemelli Romolo e Remo, allattati da una lupa. Il cielo è tempestoso, le fronde degli alberi appaiono mosse dal vento. Sul lato sinistro della composizione emerge dall’oscurità dello sfondo, a pochi passi da una piccola capanna, un pastore col suo gregge.
L’opera è attribuita a Livio Mehus (1630-1691), pittore fiammingo che operò prevalentemente a Roma e a Firenze, dove fu allievo di Pietro da Cortona. Probabilmente Mehus riprende il soggetto e la struttura compositiva del dipinto da una lunetta affrescata dal Maratta intorno al 1654 nella cappella di San Giuseppe nella Chiesa di San Isidoro Agricola a Roma. Si tratta di una scena a notturno, in cui l’unico sprazzo di luce deriva dal Bambino tra le braccia della Vergine. Intorno San Giuseppe, i pastori e due angeli assistono all’evento in atto di contemplazione.
Attribuito erroneamente a Matteo Rosselli (1578-1650) per via di un’iscrizione sul retro del telaio, in realtà è opera di Jacopo Vignali (1592-1664), che del Rosselli fu allievo. Stilisticamente questo bozzetto si avvicina ai numerosi disegni del Vignali conservati agli Uffizi e ai monocromi di casa Buonarroti. In primo piano Davide, vestito di rosso, suona l’arpa dinnanzi a Saul seduto sul trono. Assistono all’evento diverse persone, mentre un cane in primo piano osserva la scena. Tutto si svolge all’interno di uno scenario architettonico ben delineato che sul fondo si apre a un cielo nuvoloso.
Il dipinto è opera tarda di Mario Balassi (1604-1667), pittore toscano allievo del Ligozzi, del Rosselli e del Passignano. Iconograficamente, soprattutto nella figura del Santo, l’autore guarda alla pala di Guido Reni nella Chiesa Nuova di Roma, riprodotta in diverse stampe dell’epoca. La Vergine, con il Bambino tra le braccia e avvolta da uno stuolo di cherubini in volo tra le nuvole, appare a San Filippo Neri, che si inginocchia ai suoi piedi in segno di contemplazione. Tra loro, posati in terra, alcuni gigli, simbolo della purezza della Vergine. Il colore oro, che prevale sia sullo sfondo sia nella ricca veste del Santo, conferisce ulteriore preziosità al dipinto.
Copia in dimensioni ridotte del grande dipinto eseguito da Paolo Veronese (1528-1588) tra il 1575 ed il 1577 sul soffitto della sala del Collegio di Palazzo Ducale a Venezia. In alto, tra le nubi, la figura allegorica della Fede alza al cielo un calice d’oro, mentre ai suoi piedi un gruppo di uomini ammassati compie sacrifici intorno ad un’ara. Sul retro della tela un’iscrizione di non facile lettura rimanda in maniera approssimativa alla data di esecuzione del dipinto (seconda metà del ‘600).
Schede tecniche a cura della Dott.ssa Chiara Tonet
Bibliografia: G.V. Castelnovi, La Raccolta Rambaldi di Coldirodi, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri, 1988; L. Magnani, Schede Ministeriali OA della Pinacoteca Rambaldi di Coldirodi, 1982.